Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscío che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta
su l'alta scala che s'annera
contro il fusto che s'inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pè tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l'acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l'aura che si perde,
e su 'l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su 'l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami
d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne e l'ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s'incúrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l'anima le possa amare
d'amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte
o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
*
Rimani! Riposati accanto a me.
Non te ne andare.
Io ti veglierò. Io ti proteggerò.
Ti pentirai di tutto fuorchè d’essere venuto a me, liberamente, fieramente.
Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo;
non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te.
Lo sai. Non vedo nella mia vita altro compagno, non vedo altra gioia.
Rimani.
Riposati. Non temere di nulla.
Dormi stanotte sul mio cuore…
*
Pace, pace! La bella Simonetta
adorna del fugace emerocàllide
vagola senza scorta per le pallide
ripe cantando nova ballatetta.
Le colline s'incurvano leggiere
come le onde del vento nella sabbia
del mare e non fanno ombra, quasi d'aria.
L'Arno favella con la bianca ghiaia,
recando alle Nereidi tirrene
il vel che vi bagnò forse la Grazia,
forse il velo onde fascia
la Grazia questa terra di Toscana
escita della casalinga lana
che fu l'arte sua prima.
Pace, pace! Richiama la tua rima
nel cor tuo come l'ape nel tuo bugno.
Odi tenzon che in su l'estremo giugno
ha la cicala con la lodoletta!
*
O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori dal bosco
esalano al mare: non canto non grido
non suono pe’l vasto silenzïo va.
Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual mèsse di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
*
O Marina di Pisa, quando folgora
il solleone!
Le lodolette cantan su le pratora
di San Rossore
e le cicale cantano su i platani
d'Arno a tenzone.
Come l'Estate porta l'oro in bocca,
l'Arno porta il silenzio alla sua foce.
Tutto il mattino per la dolce landa
quinci è un cantare e quindi altro cantare;
tace l'acqua tra l'una e l'altra voce.
E l'Estate or si china da una banda
or dall'altra si piega ad ascoltare.
É lento il fiume, il naviglio è veloce.
La riva è pura come una ghirlanda.
Tu ridi tuttavia cò raggi in bocca,
come l'Estate a me, come l'Estate!
Sopra di noi sono le vele bianche
sopra di noi le vele immacolate.
Il vento che le tocca
tocca anche le tue palpebre un po' stanche,
tocca anche le tue vene delicate;
e un divino sopor ti persuade,
fresco ne' cigli tuoi come rugiade
in erbe all'albeggiare.
S'inazzurra il tuo sangue come il mare.
L'anima tua di pace s'inghirlanda.
L'Arno porta il silenzio alla sua foce
come l'Estate porta l'oro in bocca.
Stormi d'augelli varcano la foce,
poi tutte l'ali bagnano nel mare!
Ogni passato mal nell'oblio cade.
S'estingue ogni desio vano e feroce.
Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce;
quello che mi toccò, più non mi tocca.
É paga nel mio cuore ogni dimanda,
come l'acqua tra l'una e l'altra voce.
Così discendo al mare;
così veleggio. E per la dolce landa
quinci è un cantare e quindi altro cantare.
Le lodolette cantan su le pratora
di San Rossore
e le cicale cantano su i platani
d'Arno a tenzone.
*
Laudata sia la spica nel meriggio!
Ella s'inclina al Sole che la cuoce,
verso la terra onde umida erba nacque;
s'inclina e più s'inclinerà domane
verso la terra ove sarà colcata
col gioglio ch'è il malvagio suo fratello,
con la vena selvaggia
col cíano cilestro
col papavero ardente
cui l'uom non seminò, in un mannello.
É di tal purità che pare immune,
sol nata perché l'occhio uman la miri;
di sì bella ordinanza che par forte.
Le sue granella sono ripartite
con la bella ordinanza che c'insegna
il velo della nostra madre Vesta.
Tre son per banda alterne;
minore è il granel medio;
ciascuno ha la sua pula;
d'una squammetta nasce la sua resta.
Matura anco non è. Verde è la resta
dove ha il suo nascimento dalla squamma,
però tutt'oro ha la pungente cima.
E verdi lembi ha la già secca spoglia
ove il granello a poco a poco indura
ed assume il color della focaia.
E verdeggia il fistuco
di pallido verdore
ma la stípula è bionda.
S'odon le bestie rassodare l'aia.
Dice il veglio: "Nè luoghi maremmani
già gli uomini cominciano segare.
E in alcuna contrada hanno abbicato.
Tu non comincerai, se tu non veda
tutto il popolo eguale della mèsse
egualmente risplender di rossore".
E la spica s'arrossa.
Brilla il fil della falce,
negreggia il rimanente,
di stoppia incenerita è il suo colore.
E prima la sudata mano e poi
il ferro sentirànel suo fistuco
la spica; e in lei saran le sue granella,
in lei saràla candida farina
che la pasta farà molto tegnente
e farà pane che molto ricresce.
Ma la vena selvaggia
ma il cíano cilestro
ma il papavero ardente
con lei cadranno, ahi, vani su le secce.
E la vena pilosa, or quasi bianca,
è tutta lume e levità di grazia;
e il cíano rassembra santamente
gli occhi cesii di Palla madre nostra;
e il papavero è come il giovenile
sangue che per ispada spiccia forte;
e tutti sono belli
belli sono e felici
e nel giorno innocenti;
e l'uom non si dorrà di loro sorte.
E saranno calpesti e della dolce
suora, che tanto amarono vicina,
che sonar per le reste quasi esigua
cítara al vento udirono, disgiunti;
e sparsi moriran senza compianto
perché non danno il pane che nutrica.
Ma la vena selvaggia
e il cíano cilestro
e il papavero ardente
laudati sien da noi come la spica!
*
L'Onda
Come scorrea la calda sabbia lieve
Per entro il cavo della mano in ozio
Il cor sentì che il giorno era più breve
E un'anzia repentina il cor massalse
5 Per l'apprezzar dell'umido equinozio
10 Che offusca l'oro delle spiagge salse
Alla sabbia del tempo urna la mano
Era clessidra il cor mio palpitante
l'ombra crescente dogni stelo vano
Quasi ombra d'ago in tacito quadrante.
*
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sìche par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
*
Laudato sia l'ulivo nel mattino!
Una ghirlanda semplice, una bianca
tunica, una preghiera armoniosa
a noi son festa.
Chiaro leggero è l'arbore nell'aria
E perché l'imo cor la sua bellezza
ci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo,
non sa l'ulivo.
Esili foglie, magri rami, cavo
tronco, distorte barbe, piccol frutto,
ecco, e un nume ineffabile risplende
nel suo pallore!
O sorella, comandano gli Ellèni
quando piantar vuolsi l'ulivo, o côrre,
che 'l facciano i fanciulli della terra
vergini e mondi,
imperocché la castitate sia
prelata di quell'arbore palladio
e assai gli noccia mano impura e tristo
alito il perda.
Tu nel tuo sonno hai valicato l'acque
lustrali, inceduto hai su l'asfodelo
senza piegarlo; e degna al casto ulivo
ora t'appressi.
Biancovestita come la Vittoria,
alto raccolta intorno al capo il crine,
premendo con piede àlacre la gleba,
a lui t'appressi.
L'aura move la tunica fluente
che numerosa ferve, come schiume
su la marina cui l'ulivo arride
senza vederla.
Nuda le braccia come la Vittoria,
sul flessibile sandalo ti levi
a giugnere il men folto ramoscello
per la ghirlanda.
Tenue serto a noi,di poca fronda,
è bastevole: tal che d'alcun peso
non gravi i bei pensieri mattutini
e d'alcuna ombra.
O dolce Luce, gioventù dell'aria,
giustizia incorruttibile, divina
nudità delle cose, o Animatrice,
in noi discendi!
Tocca l'anima nostra come tocchi
il casto ulivo in tutte le sue foglie;
e non sia parte in lei che tu non veda,
Onniveggente!
*
O sposo della Terra venerando,
è bello a sera noverare l'opre
della dimane e misurar nel cuore
meditabondo la durabil forza.
Veglio, la tua parola su me piove
candida come il fior del melo allora
che già comincia ad allegare il frutto.
Parlami, e dimmi quali sieno l'opre.
"Di questo mese m'apparecchio l'aia.
La mondo e sarchiellata lievemente
la concio con la pula e con la morchia
sicché difenda la biada da topi
e da formiche e d'altra gente infesta.
E poi la piano con la pietra tonda,
o con legno; o pur suvvi spargo l'acqua
e suvvi metto le mie bestie, e bene
cò piedi lor la faccio rassodare;
e poi si secca al sole" il veglio dice.
E sta su la sua soglia rinnovata
di quella pietra ch'è detta serena
(nasce del Monte Céceri in gran copia)
schietta pietra, pendente nell'azzurro
alquanto, di color d'acqua piovana
ove cotta la foglia sia del glastro.
E dietro la sua faccia, che la grande
etade arò con invisibil vomere
sì che raggia di curvi e retti solchi
qual iugero già pronto alla sementa,
sale su per lo stipite di pietra
il bianco gelsomin grato alle pecchie,
eguale di candore al crin canuto.
"Di questo mese nel solstizio, quando
il Sol non puote più salire, semino
le brasche; le quà poi di mezzo agosto
trapiantar mi bisogna in luogo irriguo.
E la bietola e l'appio e il coriandro
e la lattuga semino, ed innacquo.
Colgo la veccia, e sego per pastura
il fien greco. La fava anzi la luce
vello, scemante la luna; la fava,
anzi che compia lo scemar la luna,
batto; e refrigerata la ripongo.
Di questo mese inocchio il pesco, impiastro
il fico, vòto l'arnia, il condottiero
eleggo nel gomitolo dell'api.
E prossima si fa la mietitura
dell'orzo, la qual compiere mi giova
anzi che mi comincino a cascare
le spighe, imperocché non son vestite
sue granella di foglie, come il grano.
Da giovine sei moggia il dì potei
segarne!" sorridendo il veglio dice.
Ancora armata è la gengiva, salda
nel suo sorriso e nella sua favella.
E non pur gli vacillano i ginocchi,
se ben la falce nell'oprare gli abbia
a simiglianza sel suo ferro istesso
curve le gambe. E sopra il santo petto
il lin rude, che l'indaco fè quasi
celeste, crea misteriosamente
l'imagine di Pan duce degli astri,
cui nel torace si rispecchia il Cielo.
*
Meco ragiona il veglio
d'una spezie di pomi.
E dice: "Nasce in arbore
di mezzana statura, e fior bianchetto.
La dolcezza del frutto
è mista con asprezza.
Non ricusa qualunque terra. I luoghi
allegri ama bensì,dolce temperie.
Dilettasi del mare.
Il vento e il gelo teme.
Innestar non si puote.
Piccola etade dura.
Serbansi i pomi in orci unti di pece.
Anco serbansi in cave
dell'oppio arbore; ovver tra la vinaccia
in pentole, assai bene e lungamente".
Così ragiona il veglio; ed in sue lente
parole il cor si spazia
come in un canto aonio.
Risplende un'antichissima virtude,
come nel prisco aedo
che canta un fato illustre,
o Terra, nel tuo bianco testimonio.
Il soffio del suo petto
paterno è come la bontà dell'aria
che fa buona ogni cosa.
La vita fruttuosa
dell'arbore s'agguaglia
alle sorti magnifiche dei regni.
Ei parla, e tra due legni
tesse la chiara paglia
come l'aedo tende le sue corde,
create cò minugi degli agnelli,
tra i bracci della lira.
Vento asolando, spira
odor di meliloto il miel dall'ombra,
colato nei mondissimi vaselli
ove la man spremette i fiali pregni.
Ei ragiona e travaglia;
e il flavescente culmo non si spezza.
A quando a quando mira
come chi attenda segni.
Ode sciame che romba.
Ei parla di battaglia
che han l'api in loro ostelli
per signorie lor nuove.
Gli luce nella barba e ne' capelli
alcun filo di paglia
che il suo parlar commuove.
Al sole oro non è che tanto luca.
Appesa alla sua bocca che s'immézza,
presso l'aroma della sua saggezza,
l'anima nostra è come la festuca.
*
Un falco stride nel color di perla:
tutto il cielo si squarcia come un velo.
O brivido su i mari taciturni,
o soffio, indizio del súbito nembo!
O sangue mio come i mari d'estate!
La forza annoda tutte le radici:
sotto la terra sta, nascosta e immensa.
La pietra brilla più d'ogni altra inerzia.
La luce copre abissi di silenzio,
simile ad occhio immobile che celi
moltitudini folli di desiri.
L'Ignoto viene a me, l'Ignoto attendo!
Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano.
Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento.
T'amo, o tagliente pietra che su l'erta
brilli pronta a ferire il nudo piede.
Mia dira sete, tu mi sei più cara
che tutte le dolci acque dei ruscelli.
Abita nella mia selvaggia pace
la febbre come dentro le paludi.
Pieno di grida è il riposato petto.
L'ora è giunta, o mia Mèsse, l'ora è giunta!
Terribile nel cuore del meriggio
pesa, o Mèsse, la tua maturità.
*
"Color di perla quasi informa, quale
conviene a donna aver, non fuor misura".
Non è, Dante, tua donna che in figura
della rorida Sera a noi discende?
Non è non è dal ciel Betarice
discesa in terra a noi
bagnata il viso di pianto d'amore?
Ella col lacrimar degli occhi suoi
tocca tutte le spiche
a una a una e cangia lor colore.
Stanno come persone
inginocchiate elle dinanzi a lei,
a capo chino, umíli; e par si bei
ciascuna del martiro che l'attende.
Vince il silenzio i movimenti umani.
Nell'aerea chiostra
dei poggi l'Arno pallido s'inciela.
Ascosa la Città di sé non mostra
se non due steli alzati,
torre d'imperio e torre di preghiera,
a noi dolce com'era
al cittadin suo prima dell'esiglio
quand'ei tenendo nella mano un giglio
chinava il viso tra le rosse bende.
Color di perla per ovunque spazia
e il ciel tanto è vicino
che ogni pensier vi nasce come un'ala.
La terra sciolta s'è nell'infinito
sorriso che la sazia,
e da noi lentamente s'allontana
mentre l'Angelo chiama
e dice:"Sire, nel mondo si vede
meraviglia nell'atto, che procede
da un'anima, che fin quassù risplende".
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